Una rivista ladina, Gana, che da voce alle donne e alle storie di donne, mi ha chiesto un contributo sul tema dei grandi eventi. Nella sua suo nuova edizione, infatti, il tema è quello delle donne e lo sci, e vista la mia storia professionale, con grande piacere ho accolto questo invito.
Proprio le valli ladine, quelle dolomitiche, saranno teatro del maggiore degli eventi sportivi, i Giochi Olimpici, nel 2025, e il tema, dunque, anche dentro paesaggi fiabeschi e tradizioni locali, diventa uno stimolo per allargare la lente di osservazione. A me è piaciuto farlo partendo dal senso che diamo alle parole. Perchè è dal loro significato, che possiamo indirizzare al meglio il nostro lavoro progettuale.
L’articolo è uscito in ladino. qui di seguito, offro la versione italiana.
Le parole e gli eventi sportivi
A proposito dello scopo, del senso e della progettazione

Gli eventi spesso vengono citati come la soluzione, la risposta, quasi l’unica azione possibile per segnare cambiamenti sentiti come necessari. Come fosse qualcosa di magico, l’evento rilancia una località, stimola lo sviluppo economico, promuove uno sport, un’arte, un brand.
I risultati auspicati sono immateriali e spesso difficilmente misurabili e allora diventa difficile capire se quella cosa là è davvero stata raggiunta. Certo, i comunicati stampa in genere parlano di successo, di obiettivo centrato. E, certo, spesso è proprio così. Soprattutto nelle nostre valli ladine, abbiamo tante storie di successo da raccontare. Ma se il successo dell’evento può essere testimoniato (tanto pubblico, tutti gli hotel pieni, tanti giornalisti), più difficile è capire se quello scopo alto (rilancio, sviluppo, promozione) abbiano davvero fatto centro nel tempo.
E questo perché l’evento è qualcosa di effimero. L’evento passa.
Prima ancora di ragionare allora, di performance, prima cioè di identificare i sempre citati KPI (key performance indicator), suggerisco di fermarsi a una cosa molto più semplice: le parole che usiamo.
Le parole – a forza di usarle e proclamarle – diventano vuote, si sgonfiano, perdono forza e questo condiziona anche l’approccio strategico nella progettazione. Le parole, infatti, definiscono e delimitano il senso delle nostre azioni, ma se il loro senso si indebolisce, rischiamo di perdere in concretezza ed efficacia.
In particolare ci sono due parole che rischiano di creare malintesi e spesso sono associate tra loro: evento e sostenibilità.
Prima di passarle al setaccio vorrei marcare il punto di vista da cui parto.
Non esiste il progresso verso l’alto. E non esistiamo noi persone da una parte e l’ambiente dall’altra. Siamo tutti insieme allineati sulla crosta terrestre e se io cambio qualcosa, condiziono ciò che ho al mio fianco (un albero o una persona) che a sua volta cambia e condiziona me e cosi via. E quando si parla di condizionamento si parla anche di benessere e di felicità (cosa che si fa sempre più anche nelle aziende). Ogni cosa che facciamo, cioè, modifica ciò che tocchiamo e – come in un dialogo continuo – ciò che noi cambiamo, modifica il nostro agire e le nostre vite. Questa è la teoria di ‘’gaia’’ del filosofo Bruno Latour che parla di connessioni e di orizzontalità.
Il primo fondamentale obiettivo non discutibile che dovremmo sempre mettere in calce a ogni progetto è: non nuocere.
Se per raggiungere un certo obiettivo ci rendiamo conto che l’evento che vorremmo organizzare, per raggiunger quell’obiettivo, avrebbe effetti negativi sulle persone, sulle comunità o altro allora dobbiamo cercare altri strumenti per raggiungere quell’obiettivo. Cioè: l’evento è uno mezzo e se il mezzo crea effetti negativi, bisogna cercare un’altra strada per raggiungere il risultato desiderato.
Parola /Evento/
Quando ero direttrice della Coppa del Mondo di Sci in Val Gardena avevo sentito il bisogno di dare un senso al mio lavoro che si ‘’esauriva’’ in due bellissime gare di sci. Avevo sentito il bisogno di capire quale altro senso si potesse dare a un lavorare per qualcosa che poi finisce.
Mi ero resa conto, infatti, che pensare solo all’evento in sé, condizionava non solo il fare, l’operatività, ma proprio una concreta visione strategica. E così avevo fatto alcune ricerche che mi avevano portato a scrivere ‘’Lo sport va in scena. Filosofia e management degli eventi sportivi’’. Un libro in cui cercavo di tornare al senso profondo del lavoro di sport event manager proprio partendo dall’analisi dei sensi delle parole.
L’evento, avevo scoperto, non può avere un suo senso solo nel momento in cui accade. Perché gli eventi sono sempre e solo di passaggio, e – come scrive il filosofo Paul Ricoeur – nel loro passare lasciano qualcosa che diventa il senso del loro essere. ‘’Ciò che passa non si lascia pensare se non in relazione a ciò che permane: la sostanza.’’ Queste sono le sue parole.
Per essere concreti, quando si parla di grandi eventi e si mostrano le fotografie di infrastrutture abbandonate, ci si chiede: ‘’Ma che senso ha?’’.
Noi stessi, senza essere filosofi, ci rendiamo conto che la festa, le emozioni vissute, i momenti di grandi intensità condivisi non sono sufficienti per dare un vero significato all’evento. Sono memorie che custodiamo, magari belle, ma evanescenti. Non sono la sostanza che resta.
La sostanza è ciò che resta quando la festa è finita.
Non si può quindi pensare che l’evento di per sé abbia il potere magico di rilanciare le economie, per esempio. D’altra parte come potrebbe un evento di un giorno, una settimana o un mese fare tutto questo, quando sappiamo bene che i cambiamenti veri chiedono tempo?
L’evento è di fatto un motore. È l’acceleratore, il propulsore del cambiamento, ma non il cambiamento in sé.
Un esempio positivo, a me vicino, sono i Mondiali di Sci del 1970 in Val Gardena, propulsori di cambiamento perché ci si occupò fin da subito dell’eredità lasciata per darle una nuova vita.
Se ci si affidiamo all’evento come fosse un deus ex machina dicendo ‘’grazie a questo evento cambierà questo e quello’’ dico la verità solo se lavorando all’evento lavorerò anche fin da subito a ciò che voglio lasciare. Se invece finito l’evento mollo tutto, nella migliore delle ipotesi non succede nulla, nella peggiore restano piscine abbandonate, come ad Atene 2004.
Il mio primo suggerimento quindi è quello di pensare sempre fin da subito a come dare un senso a ciò che resta e a lavorarci in modo solido. Londra 2012: le piscine olimpiche avevano – già prima delle Olimpiadi – un piano di gestione e sostenibilità finanziaria per il post olimpiadi con un obiettivo chiaro, quello di promuovere lo sport anche per abbattere i costi sanitari.
Di questo, in fondo, ho scritto nel mio libro, che è uscito nel 2015, quindi ormai già sette anni fa.
Parola /Sostenibilità/
Nel frattempo un’altra parola è diventata ripetitiva e tutti, ma davvero tutti oggi la usano, spesso a sproposito. La parola sostenibilità.
‘’Sarà un evento sostenibile’’, si dice. ”Avete il piano sostenibilità?’’. Ma cosa vuol dire esattamente ‘’evento sostenibile’’?
Che uso carta riciclata, che siamo plastic free, che cerco di limitare le emissioni al massimo, che uso macchine elettriche? O che non costruisco nulla, che uso solo infrastrutture riciclabili, che il contribuente non dovrà pagare un centesimo?
Fredmund Malik, nel suo utilissimo libro ‘’Gefährliche Management Worte’’ (”Parole pericolose del management”, anche in traduzione inglese) ha scritto che la parola sostenibilità può creare ambiguità perché è una parola statica che ti dice che tu tieni qualcosa (dal latino sus-tenere = tenere sopra) e non che generi qualcosa.
Se pensiamo agli eventi che sono dinamici e poi finiscono, il solo ‘’tenere qualcosa’’ è troppo poco. L’evento green è troppo poco perché a me interessa la sostanza che lascia nel suo passaggio, non solo il suo essere green mentre va in scena.
Sono solo parole, si dirà. Ma non è così. Le neuroscienze spiegano bene come il senso delle parole che pronunciamo agisce sui nostri neurotrasmettitori e condiziona le nostre azioni. E dunque usare parole statiche per occuparci del cambiamento trasformativo può renderci miopi e farci vedere solo ciò che abbiamo vicino.
Non so se si potrà mai sostituire la parola sostenibilità globalmente diffusa, ma io nella mia testa (per la questione dei neurotrasmettitori e del mandare loro il messaggio giusto) ho in mente un’altra espressione.
Parola /Cura/
Una è la parola cura. Di solito la si usa per indicare il ‘’prendersi cura di’’ e spesso è associata al ‘’lavoro di cura’’ delle donne, che più degli uomini si occupano della cura della famiglia, dai bambini ai nonni.
Ma la cura è una parole molto più forte perché se noi la usiamo nel management, nella progettazione, nei piani strategici spostiamo il focus dall’obiettivo (il rilancio del territorio) alle persone (il miglioramento della vita delle persone che abitano il territorio).
Potente, vero?
La cura si occupa delle persone. E associarla agli eventi significa eliminare dalla carta strategica parole e concetti astratti e lavorare con un approccio human centered. E poiché noi umani siamo insieme all’ambiente significa occuparsi della comunità intera. La comunità è fatta di chi abita il territorio, ma anche di chi lavora nell’evento e di chi lo visita. La comunità sono le persone che condividono relazioni di qualsiasi tipo esse siano. E io di tutte loro mi prendo cura.
Recentemente ho partecipato a una tavola rotonda, organizzata da MPI Chapter Italia, sulla leadership gentile insieme a Guido Stratta, che è il Direttore People & Organisation del Gruppo Enel e fondatore dell’Accademia della Gentilezza.
Lui usa tantissimo la parola potenziante. Io me ne sono innamorata perché ‘’potenziante’’ significa che amplifico il risultato con la possibilità di una vera evoluzione migliorativa. Lui la applica alle responsabilità dei manager, io la porta dentro gli eventi.
La cura potenziante è l’alternativa alla sostenibilità perché si prende cura di tutte le persone affinché il dopo evento sia realmente generativo per un benessere collettivo.
E allora, per tornare agli slogan – la vera sfida negli eventi oggi – non è quella di rilanciare, migliorare, arricchire un territorio, ma è quella di prendersi cura durante l’evento (e nella fase di preparazione) di tutto ciò che tocca, affinché dopo ci sia un reale miglioramento nella vita delle persone. E ciò vale per un grande evento, una manifestazione per i turisti, una rassegna d’arte o anche un’assemblea di lavoro.
E tutto questo io lo chiamo la gentilezza. Prendersi cura concretamente di ciò che tocchiamo e farlo pensando a ciò che lasciamo. Mettere semi, far germogliare, nutrire il cambiamento per il benessere.
Gli eventi sono una possibilità.
Possono realmente accompagnare il cambiamento migliorando le cose, a patto che lo facciano in modo gentile.
La vera sfida sta nello spostare l’accento dai risultati astratti agli esseri umani pensando che quando l’evento finisce, nulla finisce davvero. Anzi, è quello il momento in cui inizia una nuova storia.
Per approfondire
Di gentilezza negli eventi ne ho già parlato, per esempio potrebbero interessati: