Event Happiness Officer: felicità non solo per spettatori.

Chissà quando anche negli eventi sarà introdotto il chief happiness officer!

Non solo CEO, COO, CFO e non solo marketing manager, spectator service manager, accreditation manager, e cosi via, ma una schiera di happiness manager.

Mi immagino già l’organigramma, tutto orizzontale, in cui il CHO lavora con chi si occupa della ”workforce”, della sostenibilità (vedi: impatto sul territorio), degli spettatori, dei fornitori, della comunità intorno all’evento etc. etc. …

Potrebbe costruire un sistema di misurazione che chiamerei felicitometro, in grado di misurare il livello di felicità, per tutti, non solo per il pubblico (l’unica felicità cui in genere si ambisce negli eventi, oltre a quella degli sponsor). E se i valori sono positivi, allora sì: è stato un successo.

La felicità è una parola che è stata recentemente smarcata. Si usa sempre più in azienda, non è più considerata un sogno ingenuo destinato solo ai bambini o alle persone insoddisfatte, ma un bene primario.

Viktor Frankl, scriveva che agognare a una vita felice porta a sicura infelicità. Perché non è la ricerca della felicità che ci rende felici. É invece il trovare un senso a ciò che si fa, che crea felicità.

Quando una persona non riesce a trovare un significato profondo nella vita, si distrae con il piacere.

Il piacere è un mordi e fuggi. La felicità è benessere che nutre.

Oltre al cibo e alla sicurezza, anche la felicità è diventata un bene. Sempre di più se ne occupano l’economia, il management, oltre che – naturalmente – il marketing, dove spesso – ahimè –  proprio il piacere si confonde con la felicità.

Stefania Demetz Event Design Chief Happiness Officer
Quando disegniamo il campo di misurazione della felicità degli eventi dovremmo considerare tre cerchi concentrici.

  • La felicità del team e di tutte le persone che ci lavorano.
  • La felicità del pubblico.
  • La felicità del territorio che ospita un evento.

Non esiste evento ‘’felice’’, se solo gli sponsor hanno fatto buoni affari, mentre sotto il tappeto piangono collaboratori stremati e un territorio sfruttato. E non esiste un evento felice quando gli spettatori on site hanno viste tutte le aspettative frustrate, anche se – magari – gli spettatori video (TV o live streaming) hanno goduto invece di una felice ed emozionante diretta.

Vediamo questi cerchi, allora, uno a uno.

Felicità di chi lavora

Nel 2016 il lavoro negli eventi è stato considerato uno dei più stressanti lavori che ci siano. Oggi forse questa classifica, in fase post pandemica, cambierebbe molto, ma non c’è dubbio che il livello di stress (stanchezza mista a pressione) che vive chi lavora in questo ambito è molto alto.

C’è una causa interna, data dal fatto che tutto debba accadere in uno spazio-tempo concentrato dentro il quale ogni cosa, anche un imprevisto, assume dimensioni che in un contesto normale potrebbero diluirsi nel tempo e nello spazio. Centinaia o migliaia di persone che entrano in uno spazio contemporaneamente, la gestione dei flussi, la messa in scena, che non ha una seconda possibilità, sono tutte cose che creano non poche tensioni.

Questa cosa è parte naturale dell’evento, tuttavia, sapendolo il lavoro andrebbe fatto con alcuni fondamentali accorgimenti di cui spesso ci si dimentica.

→ Obiettivi

Definire in modo chiaro e trasparente gli obiettivi dell’evento e condividerli

A me era capitato, anni fa, di lavorare a un grande evento in cui gli obiettivi reali, non quelli stampati in bella forma sui depliant, non erano stati chiariti, né comunicati e né erano condivisi. Ai vertici tre persone chiave nei processi decisionali avevano tre diversi scopi e spingevano ognuno nella propria direzione. Il livello di conflittualità – e dunque di infelicità – che ne uscì è facilmente immaginabile.

La domanda quindi da porsi è: ”Perché facciamo questo evento?” E la risposta deve essere chiara a tutti.

→ Organizzazione

L’organizzazione è uno mezzo per raggiungere l’obiettivo, non un ostacolo.

Capire chi fa cosa e con quali responsabilità e attivare un sano processo di deleghe è fondamentale. Non basta riempire caselle con mansione e nome se poi quella cosa non funziona.
La cartina di tornasole è partire proprio dall’organigramma. Solo riempiendo ogni casella e dando a ogni compito un nome e un responsabile che ci si rende conto se l’organizzazione potrà nutrire la felicità di chi lavora o porterà a molto probabili conflitti tra sovrapposizione di competenze, deleghe non trasferite e terre di nessuno in cui non si sa chi si occupa di una certa cosa.
E – lo scrivo per esperienza – questo è un degli aspetti più fragili che si riscontrano negli eventi.

→ Motivazione

La motivazione non la crei a tavolino o regalando la maglietta ufficiale ai collaboratori.
La motivazione la costruisci partendo da tre pilastri fondamentali:

    1. Rispetto per la persona, la sua esperienza, il suo lavoro e la sua umanità.
    2. Compiti e obiettivi per ciascuno chiaramente definiti.
    3. Ascolto e partecipazione, cioè empatia.
→ Leadership

Leadership vuol dire guidare le persone, non comandarle.

Significa valorizzarne le capacità, aiutarle a gestire le proprie vulnerabilità sul campo (e negli eventi – proprio per lo stress – siamo tutti più fragili) e assumersi in prima persona le responsabilità (soprattutto quando l’evento lavora con tanti volontari ai quali non si può buttare sulla schiena la zavorra della responsabilità ultima).

→ Fiducia

La fiducia si crea anche nei rituali: creare dei momenti autenticamente propri, per il team che sia la pausa pranzo, il de-brief del mattino presto, la birra a fine giornata.

Momenti in cui scrollarsi di dosso tutto e stare insieme. La complicità dentro gli eventi è un nutrimento magico che si crea solo se ci sono le condizioni per lasciarsi andare liberamente, per ascoltare e parlare liberamente, per sentire che non si è soli dentro la grande centrifuga, ma insieme.

In tutto ciò è scontato che chi lavora agli eventi possa mangiare bene, avere un luogo in cui riposarsi, sedersi e isolarsi per godere un po’ di necessario silenzio e riposo.

Felicità dello spettatore

Mi viene in mente una citazione  di Steve Jobs , che quando aveva deciso di lanciare gli Apple Store il suo desiderio era quelli di ”far essere le persone un po’ più felici di prima’‘, anche se magari non compravano nulla.

Come aumentare allora la possibilità di felicità e far sì che le persone che entrano in platea per assistere a uno spettacolo se ne escano più felici di prima? Molto dipende dalla qualità dello spettacolo (che sia una gara, un concerto o uno speech). Ma non tutto. Anzi, nello sport una serie di studi rivela che la vittoria del proprio beniamino non sia la determinante primaria per definire il grado di soddisfazione complessivo rispetto a un evento.

La felicità non è programmabile. Come dice Daniel Kahnemann  i bias cognitivi ci portano a ricordare le cose in modo diverso rispetto a come sono realmente accadute e quindi non possiamo produrre in automatico felicità, ma possiamo crearne le giuste condizioni.

→ Aspettative

Lavorare in modo onesto sulla Vorfreude (la gioia dell’attesa dell’evento) con una narrazione che non prometta cose che non si potranno garantire. Bruno e Claudia Frey nel loro libro Economia della felicità mostrano come proprio gli studi di misurazione della felicità abbiano mostrato che le aspettative giocano un ruolo fondamentale.

→ Effetto sorpresa

Creare effetti sorpresa, come spiega bene il behavioral management. Le persone restano più coinvolte se accade qualcosa che non si aspettavano e non devono per forza essere cose grosse. A volte basta una tecnologia non immaginata, un panino al punto ristoro molto speciale, una hostess che ti consegna un gadget.

→ Customer Journey

Per capire come fare basta ripercorrere tutta la costumer journey e trattare ogni touch point come fosse l’unico, non in modo sbrigativo, non come un semplice servizio, ma riempiendolo di senso e di vera accoglienza.

Felicità del territorio

Questo si riferisce soprattutto ai grandi eventi, ma è facile immaginare anche contatti con micro comunità nelle manifestazioni più piccole

L’evento dovrebbe sempre transitare in un territorio coinvolgendo la comunità (leggi: le persone che la vivono) e dovrebbe lasciare un’eredità positiva, che sia economica, infrastrutturale o anche solo esperienziale.

Non immondizie, cioè, come scriveva alcuni anni fa un giornalista sul settimanale tedesco Die Zeit parlando delle Olimpiadi di Sochi. La sua impressione era quella di assistere all’arrivo di una navicella spaziale di extra terrestri (l’organizzazione dell’evento) che una volta fatta la festa se ne va lasciando la spazzatura nella piazza centrale

Come fare?
La via semplice è non pensare solo a ciò che accade dentro l’evento, ma con un approccio olistico, andare anche nel paesaggio intorno. Pensare cioè a sistema, disegnando una mappa dei ‘’nodi’’ che l’evento tocca e trovare il modo di coinvolgerli e valorizzarli in armonia.

Stefania Demetz Event Design Chief Happiness Officer (1)
Il felicitometro dovrebbe dunque occuparsi di misurare tutto questo.

  • La felicità di chi ha lavorato.
  • La felicità di chi ha assistito
  • La felicità di chi ha accolto.

E nella riunione finale di analisi dell’evento l’event chief happiness officer potrebbe dire: obbiettivo felicità centrato!

Altrimenti è la solita cosa a macchia di leopardo, un po’ di felicità qua e un po’ là, ma tante scorie (mentali o materiali) che nessuno ha più voglia di smaltire, perché la carovana del circo se ne è andata e l’evento è già una storia passata.

Risorse
F come felicità
Strumenti

Un libro che illustra come misurare la felicità.
Tal Ben Shahar e la sua formazione (libri, interviste, podcast sulla felicità).
Podcast: Chi è il CHO?

Vai alle puntate precedenti

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La foto in testa a questo post è di Francesco Patrinostro.

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