Gli eventi ad alta intensità sono un’occasione d’oro per praticare la servant leadership.
Perché?
Perché la pressione, i tempi stretti, gli imprevisti, le emergenze sono tutte cose che possono tirare fuori il nostro lato peggiore. Ma che se vissuti mettendo da parte ego e paure, possono essere la palestra più sfidante per diventare (persone) migliori nel lavoro.
Lo so bene: la servant leadership è bellissima sulla carta.
Ma metterla in pratica è tutt’altra cosa. E nei grandi eventi spesso viene buttata in un angolo perché non c’è tempo e non c’è spazio per essere realmente servant leaders.
Fare il capo, insomma, è molto più veloce, immediato, e facile, in fondo.
Vocabolario
La servant leadership è quella pratica di guida che – appunto – è al servizio degli altri, siano clienti o collaboratori o fornitori. Quella pratica per cui alla base c’è un pensiero potente che dice: aiuto le persone a diventare migliori grazie al lavoro.
Per capire davvero, nel pratico di cosa parliamo, questa intervista sulla leadership di Simon Sinek all’imprenditore Bob Chapman è davvero ispirante.
Fare il capo, invece, vuol dire, in virtù del proprio ruolo comandare, e spesso delegare compiti e non responsabilità. Il compito viene magari eseguito, ma non è detto che la persona delegata abbia imparato realmente qualcosa.
Nella mia esperienza mi sono imbattuta, ahimè, in alcune eventi sportivi allergici a un approccio human centered. Ci si preoccupa molto di più del fan engagement, e moto meno del ‘’workforce engagement’’.
Da un lato, esiste ancora una vecchia guardia di modelli novecenteschi, per cui il capo (talvolta deviato nel padrone) è colui che comanda. Punto. Colui o colei che si assume le responsabilità e dunque in questa ottica ha il dovere (o potere) di comandare. O anche, nei casi peggiori, colui o colei (più spesso colui, ahimè) che sfrutta il palcoscenico degli atleti per costruirsene uno personale.
Nello sport, inoltre, troppo spesso sono lacunose le competenze perché considerate irrilevanti.
E in questa epoca fluida e di trasformazione continua, non dare valore a skills specialistiche può fare davvero molti danni.
Questo, in realtà, riguarda un po’ in genere il mondo degli eventi: ‘’E che ci vuole a organizzarli?’’.
Come se anche questo non fosse un mestiere che richiede invece un alto livello di specializzazione in settori e ambiti diversi e integrati tra loro.
La leadership si impara. Ed è una disciplina trasversale che tocca tutti i settori. È una competenza che si deve integrare con la conoscenza specialistica di funzione.
Un marketing manager deve anche essere un buon leader, se guida una squadra. La stessa cosa vale per lo sports director, o per chi guida le operations o i media o gli allestimenti o i trasporti. Chiunque guidi un pezzo dell’ecosistema evento e abbia sotto di sé una squadra non può essere solo un capo (o al limite ‘’recitarlo’’), deve invece essere un leader. Anche se la squadra è piccola. E questo in senso sia verticale e sia orizzontale.
Certo, negli eventi sportivi spesso la pressione è alta e sembra che agire da servant leader sia uno spreco di tempo e di energie, quando la priorità è data all’azione immediata. E dunque meglio comandare che guidare?
Negli eventi si pensa quasi solo all’azione e pochissimo al come attivare quell’azione anche da un punto di vista ‘’meta-lavorativo’’.
Ma è proprio (non) pensare in questo modo il vero spreco.
Gli eventi, che sono spesso una centrifuga densa e sotto pressione, dai tempi strettissimi, con attività che finiscono insieme in un imbuto e richiedono sforzi notevoli e sinergici per far si che al fischio d’inizio tutto sia a posto, la servant leadership ha uno spazio privilegiato di azione.
Sotto pressione tiriamo fuori il meglio o il peggio di noi stessi.
Se stanchi, le nostre fragilità si mettono in luce in modo talvolta eclatante, se non abbiamo i nervi saldi e non restiamo lucidi, rischiamo di andare in tilt e non riusciamo nemmeno a fare ciò che prima facevamo senza problemi. Se poi la pressione del tempo-cose-da-fare arriva a livelli insostenibili, cosa che in certi mega eventi accade, perdiamo il focus.
In una situazione del genere possiamo fallire o possiamo imparare. Imparare a gestire tutto questo, a vedere oltre, ad abbandonare il nostro ‘’posizionamento-da-difendere’’ o la nostra frustrazione a favore del risultato, che non è solo l’evento di successo, ma è la nostra esperienza.
Mi è capitato di avere confronti dalla prima linea su questo approccio. Mi è stato detto: ‘’Devi essere più dura’’.
Questa cosa all’inizio mi ha destabilizzava un po’, perché odio usare il bastone e dunque non lo uso. Ma mi è bastato poco per capire che ‘’essere dura’’ è espressione figlia di un’epoca passata, di modelli di leadership ormai superati. Il che non vuol dire nutrire a carote una squadra, o far passare gli errori (pure i miei) come se nulla fosse.
Proprio in un evento, dove il nostro essere è sottoposto a varie pressioni, dove lo sforzo psicofisico può raggiungere livelli al limite della sopportazione, chi guida una squadra deve, e sottolineo deve, cogliere questa occasione preziosa per aiutare il proprio team a crescere, a diventare ancora migliore, non solo in senso di performance, ma in senso di crescita personale. Il risultato sull’evento seguendo questo approccio si sviluppa in modo naturale, perché si crea vero e autentico commitment.
In tempi di pace è facile essere calmi, guidare con ascolto ed empatia. Molto più difficile è farlo quando sotto pressione.
Non c’è qui un et et. Cioè non si può essere a volte capo a volte servant leader. O fai il capo, il comandante, o scegli di essere un leader, che aiuta il team a fare il proprio lavoro e crearsi una legacy personale di esperienze e di riflessioni su come poter migliorare all’evento successivo.
Non esiste l’evento one shot, mai.
Perché se è vero che l’evento finisce, noi restiamo.
E sarebbe uno spreco, oltre che un errore, non sfruttare questo ‘’infinte game’’ di ciclo e ciclo, di evento in evento per non migliorare insieme come team e come esseri umani.
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